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Made in...

Scritto da Serena De Pietro

Vi è mai capitato di entrare in un negozio e fra centinaia di capi di vario genere pensare: chi c’è dietro a tutto ciò?

#WhoMadeMyClothes è l’hashtag che il 24 aprile 2015 ha spopolato sul web in occasione della tragedia avvenuta in Bangladesh il 24 aprile del 2013, dove, a causa del crollo di un edificio commerciale a otto piani, persero la vita migliaia di operai, uomini, donne e bambini, che giorno e notte producevano capi d’abbigliamento. All’interno del grande palazzo, oltre alle fabbriche tessili, erano presenti banche e numerosi punti vendita, ma, mentre a questi ultimi due, all’indomani della presa d’atto della presenza di alcune crepe fu permesso di chiudere, ai fabbricanti fu imposto di continuare a lavorare. 

Il marchio “Benetton”, una fra le tante industrie tessili che fa realizzare i suoi prodotti in Medio Oriente, ha dichiarato di rifiutare il risarcimento, confermando la sua completa innocenza. D’altronde, sarebbe da codardi ammettere che un prodotto italiano si sviluppi nelle retrovie di grandi stabilimenti stranieri, con lavoratori pagati indegnamente, lasciati lavorare in condizioni critiche. È bene notare come la storia si ripeta: alla fine durante la prima rivoluzione industriale la condizione dei lavoratori non era la stessa?

La situazione non cambia per le Hogan o le Tod’s, emblema dello stile italiano per eccellenza, che vengono prodotte prevalentemente in Romania o in Cina dove il manifatturato costa sensibilmente meno; come anche il Woolrich, il famoso parka da circa 700 euro, ma anche Pupa, Sephora, H&M, Mac, Miss Sixty, Energie, Killah, Refrigiwear, Murphy & Nye, Clarks, Nike e Adidas.

 

Inoltre, è cosa buona e giusta sottolineare come in questo nuovo sistema della fast fashion, che ha rivoluzionato tutto il meccanismo di produzione, non si usino più tessuti pregiati ma, per investire poco e rendere i capi comunque apparentemente molto confortevoli, si usino prodotti come solventi, metalli pesanti e coloranti da cui possono derivare le principali patologie dermatologiche. Citando Livia Firth: «La fast fashion è come i fast food. Dopo il piacere iniziale, ti lascia solo un cattivo sapore in bocca». Sono capi, infatti, che durano relativamente poco, qualche anno al massimo per poi essere gettati e recare danno all’ambiente. 

 

Detto ciò, il consiglio è quello di prestare molta attenzione a cosa e dove si compra.


Serena De Pietro 5D

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