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La luce come i transformers

Ogni giorno vediamo migliaia di cose e almeno una volta ci saremo chiesti cos’è che rende visibili gli oggetti. Questa domanda tormenta il genere umano da millenni e i primi a muovere qualche ipotesi a riguardo furono i filosofi greci, tra cui i grandi Pitagora e Platone. Per questi la visione degli oggetti era possibile grazie a delle piccole sonde emesse dai nostri occhi che raggiungevano gli oggetti raccogliendone informazioni.

 

Questa teoria fu rimpiazzata intorno all’anno 1000 dal fisico arabo Alhazem il quale ipotizzò che la visione fosse possibile grazie a fasci di luce che colpiscono gli occhi; la maggior parte dei corpi, inoltre, per rendersi visibile, riflette la luce che viene invece emessa solo da alcuni corpi, come il Sole e le altre stelle.

 

Nel 1600, intervenne in proposito Isaac Newton, il quale osservò il fenomeno della riflessione luminosa: un raggio di luce quando urta una superficie riflettente, torna indietro “rimbalzando”. Questa proprietà del “rimbalzo” fece pensare allora che la luce fosse un flusso di tantissime particelle che si muovono in linea retta e che, appunto, rimbalzano. Studi successivi classificarono la riflessione come una delle proprietà di cui godono le onde, basta infatti pensare all'eco che è il “rimbalzare” indietro di un’onda sonora. Constatato quindi che la riflessione era una proprietà di carattere ondulatorio, la fisica classica definì la luce come un'onda.

 

A sostegno della natura ondulatoria della luce, nel 1800, il fisico inglese Young compì l'esperimento della doppia fenditura: facendo passare un fascio luminoso attraverso due fessure parallele praticate su un pannello opaco, rilevò su di un altro pannello posto a distanza, l’alternarsi di zone di luce e ombra. Queste ultime comparivano secondo una sequenza caratteristica del fenomeno della diffrazione, proprietà tipica delle onde. Per chiarire perché il risultato di questo esperimento sembrò confermare senza ombra di dubbio la natura ondulatoria della luce, facciamo un'analogia con le onde del mare. Se in mare poniamo una diga con due varchi, l'acqua passerà attraverso e si incresperà producendo due nuovi fronti d’onda a forma di semicirconferenze concentriche, come se fossero generate da una nuova sorgente nella fenditura stessa. Questo fenomeno è proprio quello che prende il nome di diffrazione. Quando le fenditure sono due, però, il fenomeno è duplice e i nuovi fronti d’onda si sovrappongono generando, con l’alternarsi di massimi e minimi, proprio la stessa figura d’interferenza rilevata da Young.

 

Ma la fisica non si fermò sicuramente nel 1800, e così il progresso scientifico e tecnologico è approdato alla scoperta dell'effetto fotoelettrico, quel fenomeno fisico per cui un raggio di luce, colpendo un oggetto di metallo, riesce ad estrarne degli elettroni. Numerosi esperimenti su questo fenomeno hanno messo in evidenza come il numero di elettroni che si è in grado di estrarre dipende dal colore del raggio luminoso: una luce blu estrae molti più elettroni di una luce gialla. Questa osservazione però mise in crisi il modello ondulatorio della luce. Un'onda, infatti, è tanto più forte quanto più è intensa e l'intensità è legata all'ampiezza di un’onda. Nell'effetto fotoelettrico, però, una luce gialla molto intensa estrae in ogni caso molti meno elettroni di una fioca luce blu, contraddicendo così la presunta natura ondulatoria della luce. Il colore, infatti, dipende dalla frequenza e non dall'ampiezza della radiazione luminosa. A questo punto la fisica classica venne messa parzialmente in discussione, parzialmente perché l'esperienza di Young rimaneva valida così come la sua conclusione. Einstein allora ipotizzò che la luce fosse costituita da quanti, ossia pacchetti di corpuscoli energetici la cui energia dipende dalla frequenza dell'onda. Questa ipotesi sembrava funzionare per l'effetto fotoelettrico, mentre per l'esperimento delle doppie fenditure non andava bene. Infatti, se un flusso di corpuscoli attraversasse delle fenditure, questi o verrebbero bloccati o passerebbero attraverso le fessure in moto rettilineo, non producendo nessuna figura di diffrazione. È chiaro quindi come la nuova teoria corpuscolare non sia valida per ogni fenomeno; di fatto funziona molto bene per l'effetto fotoelettrico. Immaginiamo di mettere un oggetto sul bordo di un tavolo che simboleggerà l'elettrone superficiale di un metallo e di lanciargli contro delle palline. È intuitivo dedurre come, lanciando un maggior numero di palline, aumenti la probabilità che il nostro oggetto venga colpito e cada. I fotoni si comportano proprio così: maggiore è la frequenza dell’onda, maggiore sarà l'energia con cui proveranno a strappar via l'elettrone dal metallo.

 

Ma allora qual è la vera natura della luce? È un'onda o un flusso di corpuscoli? Beh, gli esperimenti confermano e confutano contemporaneamente entrambe le interpretazioni che, quindi, dobbiamo ritenere ugualmente valide.

 

La luce è infatti allo stesso tempo onda e particella; un po’come i Transformers sono sia macchine che robot.

 

Questo dualismo onda-particella ha rivoluzionato la fisica moderna ponendo le nuove basi della meccanica quantistica. È evidente, a questo punto, che la fisica non è una scienza rigida, ma è in continuo movimento, sempre alla ricerca di nuove e più calzanti leggi per spiegare quello che ci circonda.

Scritto da Giulia D'Orio 5A

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