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Mamma che TRAGEDIA!

L'intrattenimento è un evento che ha come scopo quello di catturare l'interesse di uno spettatore o di un pubblico, oppure, in senso più ampio, qualunque attività capace di suscitare gioia o divertimento in chi la pratica. Una delle forme più antiche di intrattenimento è il teatro, ma davvero tutti sanno come è nato?

 

Il teatro nasce in Grecia, intorno al V secolo a.C. e prende il nome da θεαομαι (teaomai), dal verbo greco “io guardo”. Originariamente, le uniche ricchezze che i contadini possedevano erano le loro coltivazioni e per evitare che le catastrofi meteorologiche distruggessero i loro campi, si rivolgevano agli dei, in particolar modo al dio della vegetazione, Dioniso.

 

Due volte l’anno, in primavera e in inverno, venivano celebrate le grandi e piccole Dionisie in onore della divinità: erano delle feste in cui si ballava, ci si travestiva, si pregava, ma soprattutto si cantava: veniva composto il ditirambo, una forma scritta di inno alla divinità che oggi possiamo definire ”antenato” della tragedia, scritto per la prima volta nel 534 a.C., da Tespi. Più tardi si formeranno i cori, quindi si esporrà il ditirambo oralmente.

 

Il coro era una delle parti fondamentali del teatro greco, essendo la voce narrante indiretta del poeta. Inizialmente, il coro si disponeva in cerchio nella parte recintata centrale della struttura semicircolare chiamata orchestra, attorno all’altare (thymele). Col tempo, si divise in due semicerchi, creando un dialogo tra le due parti. Ogni “gruppo” era guidato da un capo (corifeo), il quale introduce, invoca il dio ed interagisce con gli attori durante il corso della rappresentazione svolta sul palcoscenico, dietro l’orchestra.

 

Alle spalle degli attori vi era la “skené” ossia alcuni pannelli di legno dove era rappresentata l’ambientazione dell’opera, dietro la quale i personaggi potevano cambiarsi di costume, senza essere visti dal pubblico che prendeva posto dalla parte opposta su una grande scalinata semicircolare (cavea). A recitare erano solo gli uomini, i quali però potevano interpretare anche ruoli femminili. Si andava in scena indossando lunghe tuniche, scarpe rialzate (coturni) e delle maschere con sopra disegnata una bocca sorridente se si interpretava una commedia, o triste se si stava recitando in una tragedia.

 

La tragedia, etimologicamente tragodìa, vuol dire “canto del capro” perché si dice venisse sacrificato un capretto alla divinità come segno di buon auspicio. Essa si suddivide in prologo (antefatto), pàrodo (intervento iniziale da parte del coro), episodi (atti) e esodo (conclusione). Gli elementi fondamentali per poter comporre una tragedia sicuramente erano il mito, i caratteri, cioè i personaggi, l’elocuzione, la rappresentazione scenica e l’accompagnamento musicale.

Secondo Aristotele, la tragedia ha una funzione didattica, pedagogica e catartica in quanto lo spettatore, immedesimandosi nel personaggio si purifica da quegli stati emotivi che lo opprimono nella vita di tutti i giorni, su tutti la paura di morire. La tragedia, inoltre, era considerata un rito, oltre che religioso, anche politico ed agonistico: venivano, infatti, organizzate delle gare tra drammaturghi, i quali presentavano tre drammi collegati tra di loro (trilogie) e una satira.

 

Tra i primi drammaturghi, in ordine cronologico, riconosciamo Eschilo che chiamava a rappresentare le sue opere due attori, Sofocle che introduce il terzo attore ed Euripide. I drammi che ci sono rimasti oggi non sono molti, l’unica trilogia completa che ci è rimasta è “L’Orestea” di Eschilo, la quale si suddivide in “Agamennone”, “Coefore” ed “Eumenidi”, ma di quest’opera ne parleremo nel prossimo numero…

 

Per questo mese concludo così, nella speranza di aver suscitato un minimo di interesse per il teatro, una disciplina stimolante e divertente non solo per chi la pratica sul palco, ma anche per chi la segue dalla platea.

Scritto da Alessandra Cavallo 4E

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